Dal vecchio ascensore usciva ogni mattina una faccia diversa. Quel giorno da quel trabiccolo usciva Kazem. Era la mattina prima di Natale, faceva freddo ma c’era un gran sole. Mi ha sempre sorpreso il via vai di gente di questo palazzo in cui vivo ormai da due anni. Uno stabile robusto, in stile piemontese, nel cuore di Roma. Ex proprietà di un ente previdenziale, qualcuno vocifera che i suoi appartamenti siano stati assegnati nel corso del tempo a pazzi e squilibrati della città. Una leggenda che mi fa sorridere, e che, in fondo, ho sempre creduto un po’ vera. Così a volte mi ritrovo a pensare che nipoti, figli e affiliati di quei matti ancora oggi abitano il palazzo in cui vivo.
Ci sono giorni in cui tutte le energie sghembe di vivi e morti transitati in queste mura vagano per i pianerottoli, l’atrio, la cabina dell’ascensore, le scale. Si odora un’aria strana e certe cose succedono e non si spiegano, come questa: non c’è giorno che non si incontri una faccia diversa in ascensore. Così quella mattina incontravo Kazem. Sembrava serafico, anche se dava l’aria di avere un po’ fretta. Aveva una giacca a vento sporca di vernice bianca, piccoli spruzzi che quasi sembravano messi lì apposta. Ci siamo salutati con un cenno della testa e un accenno di sorriso. I suoi occhi si sono posati nei miei, e ancora stavano lì quando ho abbassato lo sguardo. Quel giorno avevo un volto nuovo da aggiungere al taccuino dei miei “profili da ascensore”. Sono corsa in radio con il motorino, ho aperto cancello e porta, e mentre appendevo con una mano il cappotto al gancio, con l’altra sfilavo il block notes dal ripiano. «24 Dicembre: sette del mattino. Scende con me dal quinto piano. Capelli fini e neri, occhi orientali (coreano?). Saluta senza voce ma con gli occhi, deciso ma anche timido. Mi dà le spalle. Gocce di vernice bianca sulla giacca a vento».
Quasi sempre incontro qualcuno in ascensore, ma non sempre si merita il registro sul mio taccuino. A volte basta il tragitto in motorino, da casa alla radio, per farmi passare di mente l’incontro. Non è stato così con Kazem. Era quasi notte quando ci siamo rivisti. Erano passati più di dieci giorni: il cenone di Natale, le tombolate di Santo Stefano, Capodanno in montagna, Epifania da amici. Ero di ritorno dalla radio, primo giorno di rientro dopo le vacanze. Spingo il portone e me lo trovo lì, ad aspettare l’ascensore. Stessa giacca a vento, stesse gocce bianche di vernice. Sorride sotto i ciuffi neri: stesso cenno di dieci giorni prima. Non avevo più pensato a lui, mi sono venute subito in mente le due righe nel taccuino sullo scaffale della radio, mai più aperto da quel giorno, adesso al buio, fermo.
«Sei del palazzo?», mi viene di slancio, trasgredendo alla mia regola del silenzio, dettata più da un senso di inadeguatezza da sub-affittuaria che dal pudore. «No». Risposta secca, ma cordiale.
«Ah».
Silenzio.
«Beh. Quintina. Sesto piano». Lo dico così, per rompere quel niente di parole.
«Kazem, nessun piano, per ora».
Ridiamo, tutti e due. Nella sua voce, un leggero accento straniero, che non sa di nessuna terra. Un tono da bambino, eppure dagli occhi, da come cede la pelle intorno, dalle increspature della bocca, dai movimenti delle mani, non sembra così giovane. Entriamo nell’ascensore e saliamo in un silenzio senza imbarazzo. La cabina è piccola e per di più si stringe nel fondo, si è obbligati a stare in fila indiana; mi incuriosisce sempre vedere quello che fa la gente, se ti volta le spalle o se ti guarda in faccia. Kazem mi dava le spalle.
«Non sembri di qui. Di dove sei?», insisto, senza motivo. Neanche io me la so spiegare questa curiosità allegra. Qualche secondo di silenzio, le spalle si alzano, poi si abbassano, si curvano un po’.
«Afghanistan».
Lo pronuncia lento, diverso da come si sente nei radiogiornali. Penso che una faccia afgana non me l’ero mai immaginata prima, non nel dettaglio. Una narice, una pupilla, un timpano afgano, come sono fatti? I suoi sembrano un po’ cinesi ma la pelle è meno gialla e sembra abituata ai climi freddi. L’afgano nel mio ascensore ha i capelli lisci e una giacca a vento con gli spruzzi di vernice. Siamo arrivati al sesto piano e ancora seguo il filo dei miei pensieri. Prima di varcare le soglie delle porte, ci salutiamo. Questa volta anche io lo guardo dritto negli occhi. Sui suoi zigomi, un filo di rosso. Questi appartamenti hanno più di cento anni. Sono pieni di storie, di cose, di odori. Mi ricordo che quando è stato ridipinto il salone, prima di passare la vernice abbiamo dovuto staccare dalle pareti sette strati di carta. Sette. Scrostavo e pensavo a quante cose avevano visto quei fiorellini pervinca o quei gigli di Firenze verde prato.
La casa in cui vivo ha le mura spesse un braccio, una volta che entri sembra che tutto il fuori sia inghiottito là dentro. Mi siedo al tavolo e giocherello con una buccia d’arancio, avanzo della colazione di questa mattina. Mi sorprendo a pensare a quel ragazzo. In fondo, dovrebbe essere solo uno dei tanti profili da ascensore. Eppure c’è qualcosa che mi rende curiosa. Da quando in radio conduco un programma di racconti di viaggio, sono diventata ancora più ficcanaso. Chissà, saranno i suoi occhi, che ridono, ma dentro sembrano tristi. Saranno gli spruzzi di vernice sulla giacca a vento. Sarà il profumo salato, che sa di mare. Quel ragazzo sta zitto e parla di un viaggio lontano.
Iran
Caffellatte nel tazzone. Me lo trascino dietro mentre giro per casa in cerca di ogni cosa possa essermi utile per la giornata. Il Cd di musica senegalese da restituire alla biblioteca, le cuffiette nuove – che quelle in redazione hanno il padiglione sinistro che sfrigola – tabacco, chiavi. Pronta. Mollo la tazza e esco. Ah! Il casco. Rientro. Riesco. Ah! I guanti. Rientro. Riesco, finalmente. Mentre aspetto l’ascensore sento dei passi delicati alle mie spalle. Kazem arriva sorridente, riposato che sembra sveglio da ore.
«A lavoro presto, eh?». Neanche finisco di domandarglielo che già mi mordo il labbro. Sono di nuovo invadente. La persona che non vorresti mai incontrare alle sette del mattino. Ma lui ride un pochino.
«Il cantiere dove lavoro è lontano. Due ore tra autobus e treno».
«Ah». Questa volta è lui più loquace di me, la mia testa è ancora impastata di sonno per domandargli altro. Kazem al contrario non sembra segnato dal risveglio. Non ci diciamo altro fino al portone.
«A presto».
«A presto».
L’alba quasi morta sta lasciando spazio al cielo.
Mi ricordo di una volta, erano i primi mesi che lavoravo in radio, eravamo in diretta al telefono con un giornalista che il conduttore aveva presentato come esperto in questioni afgane. A un tratto un disguido tecnico aveva costretto il mio collega ad allontanarsi dal microfono. «Domandagli qualcosa», mi aveva sussurrato uscendo dallo studio. Ero così emozionata, mi sentivo le gambe molli. Chiedigli quello che vorresti sapere tu sull’Afghanistan, mi ripetevo per calmarmi. Finito lo stacco musicale, ho acceso il microfono.
«Quand’è l’ultima volta che è stato in Afghanistan?», gli chiedo per iniziare.
Dall’altra parte del telefono, un silenzio imbarazzato. In un secondo la sensazione che quella conversazione mai iniziata non sarebbe decollata.
«Ho studiato molto, ma non ho mai avuto il tempo di viaggiare», è stata la risposta nervosa.
Oggi di nuovo mi trovo a fare domande sull’Afghanistan. Vorrei chiedere a Kazem se lì ci sono gli ascensori, e se ce ne sono anche di bizzarri come il mio, con il fondo a punta e il campanellino che suona all’arrivo. E se la giacca a vento con la vernice bianca l’ha comprata lì o qui in Italia, e se gli piacciono i cornetti del bar all’angolo, che se ci vai alle otto bisogna ingurgitarli in piedi, schiacciati nell’angolo, sgomitando tra una folla di impiegati con la valigetta che ruminano intorno al bancone.
Ma Kazem ora è un profilo di due righe in un quaderno, e chissà se lo rivedrò ancora.
Sono passati tre, forse quattro giorni da quando sono tornata alla routine quotidiana. Le vacanze già le ho dimenticate. Oggi il caffè nel barattolo è finito. Di corsa al bar, neanche mi lavo la faccia, ché è tardi e ho voglia di caffè. Ascensore. Una signora sulla settantina, occhi acquosi, sguardo buono, buste di plastica in mano, entra con me nella cabina. Mi si mette di fronte e guarda il vuoto. «Sono un po’ ingombrante», le dico indicandole con la testa lo zaino che carico sulle spalle.
«Siamo tutti ingombranti», risponde continuando a fissare la parete.
«Giusto», dico a bassa voce guardandomi la punta dei piedi.
Al bar, seduto su uno sgabello, c’è Kazem. Sono felice di rivederlo, e penso che era ormai qualche giorno che non ci incontravamo. Sono le sette e nel locale c’è ancora spazio per sistemarsi di fronte al bancone. Lui mi saluta con un gesto della mano, mangia un cornetto. Gli piacciono allora. Ricambio il saluto e mi siedo accanto a lui.
«In Afghanistan che si mangia di mattina?», gli chiedo scrutando la vetrina delle paste.
«Non ne ho idea».
«Come non ne hai idea?».
«Io in Afghanistan ci ho vissuto solo i primi tre anni della mia vita».
Sento un vuoto dentro, e poi mi viene quasi da ridere. Tutti i miei pensieri, le mie curiosità su un paese sconosciuto, le mie divagazioni su un pezzo di terra lontana incontrata dentro un ascensore. Ma Kazem continua a parlare.
«Poi la mia famiglia si è trasferita in Iran, nella capitale, Teheran, e lì sono rimasto fino a quando avevo quindici anni».
«Iran?», gli dico stupita lasciando stare i cornetti.
«Sì. Iran».
«E com’è?».
«Com’è? Come qua».
Che domanda stupida. Com’è. Pensa se ti domandassero: «Com’è l’Italia?», alle sette del mattino, mentre sorseggi il caffè al bar. Bella domanda. Avrei voluto sapere un mucchio di cose, ma non riuscivo a chiedere niente. Le domande mi si arricciavano in testa e non riuscivo a scartarne neanche una. Allora Kazem ha parlato per me, con la sua voce velluto di bambino, regalandomi un pezzo di storia che sembra fatto di cristallo.
«Quando siamo arrivati in Iran, io, mia madre, mio padre e i miei quattro fratelli, eravamo clandestini in quel paese. Uno dei miei fratelli è mio gemello, gli altri sono più grandi e più piccoli. Se sei clandestino non vai a scuola e non lavori. Così vagabondavo tutto il giorno».
Vagabondavo? Che termine strano per uno straniero. Come fa Kazem a parlare così bene l’italiano? Come fa a stare qui in questo bar? Dalle periferie di Teheran all’ascensore dei pazzi. Quanti odori sono cambiati? E i colori? Non posso chiedere niente, la sua storia di cristallo sta tutta nelle sue parole, per una volta voglio ascoltare in silenzio.
Ma Kazem non dice più niente, ha di nuovo in mano il cappuccino e sembra distratto dalla prima di un giornale free press. Aspetto qualche istante, ma non accenna a riprendere il racconto.
«Vagabondavi? Che vuol dire vagabondavi?».
«Stavo lì. E non facevo niente», dice senza guardarmi.
È normale fare colazione con un ragazzo afgano che però viveva in Iran e a dieci anni vagabondava a Teheran? Voglio dire, a me non succede tutti i giorni. Voglio sapere. Mi spetta di diritto qualche dettaglio in più, no? Inghiotto la mia rabbia col caffè, e Kazem ride, come se mi leggesse nel pensiero.
«Avevo quattordici anni», la voce si fa un poco più adulta, ma esce sempre come un flauto. «Non ce la facevo più a non fare niente. Niente scuola, niente lavoro, niente di niente. Allora io e un mio amico un po’ più grande stavamo sempre insieme. Così abbiamo deciso di partire. Siamo partiti con un gruppo di persone, eravamo una ventina. E dall’Iran siamo andati a piedi fino alla Turchia. Avevamo tre guide, noi li abbiamo pagati e loro ci guidavano. Ci abbiamo messo quasi due mesi. Siamo stati tre giorni a Istanbul. Poi un giorno ci hanno portato su un’isola e da lì siamo partiti con la nave».
Sembra semplice, così come lo racconta. Nelle parole non ci sono indugi. Ma gli occhi, mi sembra che gli si fanno più profondi, e non mi guarda più in faccia.
«Cinquecento euro. Gli ho dato cinquecento euro per fare quel viaggio. Mia madre me ne aveva dati settecento».
I riccioli di pensiero continuano a stare lì, accovacciati in un angolo della mia testa. Non mi escono parole e la tazzina di caffè mi sembra così stupida lì sul bancone.
«Al porto, prima di salire sulla nave, il contrabbandiere ci ha detto: “Dovete andare sotto il camion e il camion poi entra dentro la nave”. Siamo stati sopra alle ruote del camion, per quattro notti. Dentro alla nave ci stavano i poliziotti che controllavano sempre, non potevamo mettere i piedi sotto il camion. Ci diceva che non dovevamo parlare e non dovevamo muoverci. Avevamo acqua e un po’ di pane».
Sembra che non ha più voglia di parlare. Forse si chiede se ha raccontato troppo, e non dice più nulla.
Vorrei chiederti di più di quel lungo viaggio. Dei piccoli gesti compiuti. L’hai comprato tu quel pane? E che occhi aveva il fornaio? E che ti portavi nelle tasche? E con che scarpe hai camminato? Avevano i lacci? Ma Kazem è già in piedi e mi saluta con il sorriso che ormai conosco.
«Devo andare, se no faccio tardi».
«E dove lavori?», finalmente riesco a srotolare un ricciolo di pensiero.
«Alla darsena di Fiumara, in un cantiere navale».
«Allora ciao, buona giornata».
«Anche a te. Ciao».
Italia
Sono passati diversi giorni. Kazem non l’ho più visto, ma spesso l’ho pensato, intento a scartavetrare una carena o dipingere un timone. Chissà che ne pensa di quel posto strano. La fine del fiume che taglia in due Roma, il piede del Tevere, quel fiume così affascinante a Ponte Milvio e quando abbraccia l’isola Tiberina, e così squallido prima di tuffarsi nel mare. A me la darsena piace. Ogni tanto ci vado e arrivo fino al faro a sentire i gabbiani. C’è una spiaggia strana piena di immondizia. Ma lì in mezzo ritrovo quello che perdo al centro di Roma.Un giorno di questi ci vado. E chissà se incontro Kazem. Oggi in radio ho fatto presto. È appena finito un lungo periodo di piogge e mezza Roma è uscita per strada e si è affacciata per vedere se gli argini del fiume riuscivano a reggere. Ma il Tevere è un fiume vecchio e forte, e si può gonfiare fin quasi a scoppiare, ma poi non scoppia mai. Giornali e tv hanno riportato fotografie e video del fiume al centro della città, ma nessuno sa di quello che è successo ai margini. Le periferie galleggiavano in silenzio. E di quello che è successo là nel fondo, dove il fiume muore, non se ne è parlato affatto. È il giorno giusto. Io vado. È veramente uno strano posto Fiumara. C’è il sapore selvaggio del mare e il gusto umido del faro, circondato da un minuscolo mondo di casette sbilenche e stradine di fango. E poi c’è il rumore degli aerei in arrivo e in partenza, che di colpo ti restituisce la realtà di una capitale che pulsa dietro le tue spalle. Ci sono i pescatori. Mezzora di treno e ci sono i pescatori con la loro canna, in silenzio. E poi ci sono i cantieri, tutti in fila uno dietro all’altro, con le barche vive nell’acqua o in rianimazione a scolare fuori dal fiume.
Chissà dove lavora Kazem. Entro a caso nel primo che incontro. Chiedo a una signora sorridente dietro al banco in un container con su scritto “ufficio”. Si chiama Alga, mi sembra un romanzo. Ha cambiato nome dopo aver scelto il lavoro o ha scelto il lavoro in base al nome? Decido di non chiederglielo. Gli domando solo di Kazem. Incredibile. Alga lo conosce. «È un ragazzo così bravo», mi dice dolcemente, come fosse la nonna. «Quando c’è bisogno di andare a largo con una barca, lui si fa sempre avanti per primo. Non vede l’ora di uscire in mare, il ragazzo. È a Roma da neanche due anni, dopo un viaggio che dio solo sa come ha fatto ad arrivare vivo. Ora è ospite in un centro che accoglie gli stranieri minori a Roma Nord, e tutte le mattine viene qui. Poi la sera, si immagini, fa anche un corso di italiano da una mia amica al centro di Roma, e ogni tanto lei lo ospita a dormire, mi dice che rifà il letto e piega l’asciugamano in bagno tutte le mattine. È veramente un ragazzo in gamba».
Cammino sul molo con le cime che scricchiolano sul legno e le sartie che sbattono a tempo. Dentro agli oblò, carteggi e binocoli e bussole. Qui ogni cosa sembra in partenza o in arrivo, e mi si scioglie quel groppo in gola che si gonfia in città. I rumori parlano di una cosa libera e lontana, sembrano registrati in mezzo all’oceano e poi suonati qua dentro.
Tra le barche a riposo fuori dall’acqua trovo Kazem, intento a fare qualcosa con uno strumento rumoroso.
«Kazem!», urlo.
Si gira e sorride. Il sorriso di sempre. Come fosse normale vedermi lì.
Kazem spegne quell’affare che neanche so che è e mi viene incontro.
«Ciao».
«Ciao».
«Passavo di qui e allora…».
«Hai fatto bene».
«Deve aver fatto un bel macello il fiume qui con tutta quella pioggia…».
«Eh sì. Avevamo gli stivali di gomma. L’acqua era altissima e dovevamo spostare le barche da una parte e dall’altra», mi dice ridendo. Ha il volto luminoso qui tra i rumori del cantiere.
«Kazem! Dobbiamo andare!», gli gridano i colleghi.
«Devo andare. Sono contento che sei passata».
«Ciao Kazem, buon lavoro».
«Ah, Kazem, che ne pensi degli ascensori?».
«Che servono per salire. E per scendere». (marzia coronati)