Sono le dieci e un quarto e quel cazzone di Tore ancora non si vede, a saperlo dormivo un’ora in più. Ieri notte mi sono fatto Terry Hunter al Metropolis, rientrato alle sette, prima di buttarmi nel letto un giro veloce al bar Vela per placare la fame chimica, una graffa e un cappuccino freddo, una parigina e una Tennent’s per Peppe ‘O Moncherino e tutti a casa.
La serata è stata uno spettacolo. Selezione mostruosa, le percussioni di What a Sensation sono inconfondibili, una versione più acida e dura dell’originale di Ken Lou con una intro più tirata e lunga, sicuramente un remix di Terry. Dovrò chiederne notizie a Marco, anche se è un po’ di tempo che non ci passo. Marco ha un negozio di dischi a due fermate di metro da piazza Salerno, al Centro direzionale. Lui è un’enciclopedia dell’house, devo imparare a eliminare il verbo procrastinare e farmi vivo. Ce la farò.
Io e Moncherino facciamo coppia perfetta. Peppe è un grande: estroverso, battuta pronta, come si butta con le femmine non ho visto farlo a nessuno, in barba al suo difetto fisico. È un bel ragazzo, ma è nato con un braccio solo, con cui fa cose fenomenali. Chiude canne con una mano sola, guida come un pazzo la sua Renault 5 Turbo, macchina normalissima, senza cambio al volante o cazzate da menomati. Con le donne ci scherza, sul fatto di possedere un braccio della lunghezza di un pacchetto di Diana. «Il padreterno mi ha risarcito: un braccio solo ma tre gambe!» era la sua battuta preferita. Le ragazze spesso reagivano schifate, ma altre volte, chissà come, la cosa funzionava. Ieri, comunque, Peppe era in gran forma, forse per il livello della serata, per i quattro bianchi ingurgitati o le due mezze colombine che si era calato, mentre Massi degli Angels of Love dal microfono ci ricordava che siamo Beautiful People in a beatiful place.
Intanto si sono fatte le dieci e mezza, e quel cazzone di Tore è sparito. Al bar becco Sasà Très Chic, che discute con un altro tizio di una camicia. «La gente per panni così caccia fuori i milioni, io cinquemila lire una t-shirt, diecimila i pantaloni e tutto très chic. L’altra settimana mi sono fatto Antignano, mercatino del giovedì a Posillipo e poi Poggioreale. Mo’ ho puntato il mercato a Caserta, ma devo fare il passaggio». Sasà mi vede fermo in attesa di qualcuno o qualcosa, e prova a coinvolgermi nel discorso. «Guarda lui, lo chiamano “Gegè due liniette”, dice che sono un nichilista, ma manco me lo spiega che significa. Ha letto due libri e per sentirsi uno buono ogni tanto butta in mezzo ‘ste stronzate. In realtà me l’ha spiegato, aspe’. Dice che sono fatto “a cazzi miei”. E se anche fosse, che male c’è? Se ognuno si facesse i cazzi suoi, oltre a campare cent’anni camperebbe pure felice. Io per aiutare gli altri devo prima stare bene, se tutti facessimo una vita scamazzata come la sua, chi cazzo penserebbe agli altri?».
Sasà Très Chic in realtà non pensa affatto agli altri, è solo un ragazzo sistemato, con una malattia per i vestiti. Limitare i costi fissi per permettersi il futile è il suo motto, e seguendo questo fondamentale d’esistenza ha eliminato completamente alcune uscite. Vive, come tanti, in una casa occupata nel Bronx di Pazzigno. È un postaccio ma lui dice di trovarsi bene, e se glielo fai notare ti dice che a Taverna del Ferro si sta peggio. Non ha l’auto, Sasà, gira in bici, usa i mezzi pubblici senza biglietto, e per farsi una chiavata punta alle zoccole automunite, di solito in zona Granatello. Ha trentasei anni, è un tipo un po’ eccentrico ma qualche pelle se la appara anche senza pagare, tanto che prima di Très Chic lo chiamavamo Maldini, per via della folta chioma, un nome che gli avevo messo proprio io ai tempi della Seconda categoria con l’Arcobarra. Lui quasi a fine carriera, io agli inizi. Ho sempre avuto talento per i soprannomi.
Sasà odia lavorare, lo fa per massimo quattro o cinque giorni al mese, quando i fratelli Cifuni, di solito nel fine settimana, hanno bisogno di un cameriere extra. Non ha grandi spese, un pacchetto di sigarette gli dura tre giorni, una plancia di fumo gli costa duecentocinquantamila e per due mesi sta a posto, anche perché ‘O Nirone è sempre pronto a fargli credito, dato che è da sempre “sotto” alla sorella di Sasà e spera che lui gli metta una buona parola. E poi vola con le scommesse, l’altra sua malattia è il pallone, almeno due domeniche al mese un paio di treglie o marvizzi, come le chiamiamo qui le cinquanta e le centomila, se le porta a casa. Per un periodo anche io mi sono appassionato alle scommesse. Vai a casa del tizio, su un foglietto di block notes numerato quello segna Pane (pareggio) o Vino (vittoria) e lo passa allo Sciacallo, il referente dei Trematerra sul gioco, sempre presente alle operazioni. Io ho portato a casa il bottino un paio di volte, ma la cosa non funzionava. Sasà invece spesso ci azzecca e arrotonda senza faticare.
Tore continua a farmi aspettare, sa il diavolo dove cazzo è finito. Non ho voglia di parlare ed esco dal bar. Noto una nuova scritta sul muro in tufo di fronte: “Trematerra regnano!”. È qualche mese che scritte così compaiono nel rione, un modo nuovo per marcare il territorio, anche abbastanza triste se si considera che i conti, quelli veri, vengono regolati in ben altro modo. Rimango a pensare ancora un po’ a qualche amico che non c’è più, alle sagome di gesso sull’asfalto e ai nastri bianchi e rossi, ai morti di qualche anno fa e alla roba che ora non compra più nessuno qui, ma sembra si venda solo in area Nord. Poi finalmente arriva Tore, salto sulla Px e in qualche minuto siamo da Lorenzo il barbiere, che per l’occasione ci presta del materiale per la “coreografia”. Tore mi fa scendere a prendere una scatola di cartone, Lorenzo mi da una pacca sulla spalla e ripartiamo con la vespa ancora in seconda.
Arriviamo al campo che sono le undici. Senza nemmeno dire buongiorno ‘o Gnu ci dice di andare con lo scatolo dal gommista di fronte all’Azzurro Service e di lasciarlo là. Lo prenderemo dopo, prima di entrare, ora bisogna muoversi che i baresi tra poco sono in giro. Quando rientriamo ‘o Gnu mi si avvicina, deve aver notato che non l’ho presa bene. «Che è, stai intossicato Eugè? Stai pigliato collera stamattina?». Gli dico che non gli ho risposto male solo perché ci stavano gli altri avanti, ma che di darmi ordini non deve permettersi. O’ Gnu è fatto così, è bravo ad approfittarsi delle situazioni, ma lo sa anche lui che certe cose gliele facciamo dire e fare solo perché ha una marea di tempo libero da investire nelle cose del gruppo, non ha un cazzo da fare ogni giorno, e si mangia lo stipendio del padre nella sua mangiatoia bassa. «Ho capito va’, niente due liniette stamattina…», mi dice. Io chiudo la conversazione mandandolo a fanculo e per oggi io e lui abbiamo finito.
I baresi li aspettiamo tra le siepi dell’ingresso Rai di via Marconi. Da qua devono passare e infatti da là arrivano i primi pullman. Qualche coglione, ragazzino probabilmente, fa saltare i piani. Partono una ventina di pietre non si capisce da dove, i vetri del bus vanno in frantumi e dopo un minuto abbiamo le guardie addosso. Noi del gruppo ci defiliamo senza aver tirato uno schiaffo e rimandiamo tutto a dopo.
Dentro al campo il nostro striscione è il migliore: “Bari ex città italiana, ora quartiere di Tirana”. Loro hanno voglia di farsi notare e ci tirano un po’ di bottiglie che si infrangono sulla rete divisoria. Ero un pischello durante l’ultimo precedente con i baresi, mi ricordo ancora il canotto che faceva su e giù per la curva a ritmo di “Barese albanese”, e mi sa che anche loro se la ricordano bene quella battaglia, che io ho vissuto solo nei racconti dei più grandi del gruppo: ventitré feriti, una manciata di guardie refertate e un vagone della metro bruciacchiato. Oggi la storia è un po’ diversa, ma le speranze di divertirci ci sono.
Dopo l’intervallo vedo ricomparire la scatola che avevamo preso dal barbiere a San Giovanni. Dall’inferiore corriamo verso il settore, dove qualcuno ci fa trovare il cancello aperto. I baresi iniziano a lanciarci i seggiolini ma in un niente gli siamo addosso per il corpo a corpo. Gli facciamo parecchio male, ma quasi subito arriva il segnale della ritirata. Non capisco, le guardie tardano ad arrivare, potremmo lasciarne a terra qualcuno e non ha senso andarsene sul più bello. Poi, quando sento sfrecciare a pochi centimetri da me qualcosa e vedo teste che iniziano a sanguinare capisco che il rischio è quello di finire vittima del fuoco amico e che è il momento della “coreografia”. Usciamo dal settore giusto in tempo per prenderci qualche manganellata, fortunatamente nessuno di noi viene bevuto dalle guardie. Lamette da barba attaccate alle 100 lire, il piano ha funzionato, ed è stato geniale.
La partita finisce in pareggio, un punto del cazzo che non serve a un cazzo, in questa stagione balorda, che sarà già finita col girone d’andata e una retrocessione inevitabile. Io rientro a casa che è parecchio tardi, dopo qualche tafferuglio con le guardie a fine gara. Mi spoglio, mi faccio la doccia e preparo la macchinetta per l’indomani. Non ho un orario per la sveglia: la stagione dei concerti è finita con Gianni e Marcella, per l’assegno di disoccupazione ci vorrà un po’, ci sarà da riempire le giornate ma senza soldi non si fa un cazzo. Prima di mettermi a letto attaccata sull’armadio con un pezzettino di scotch vedo una lettera. Sulla busta c’è scritto “Per Eugenio”. Non è affrancata, l’inchiostro è quasi sbiadito, sembra essere stata scritta un po’ di tempo fa. La apro, leggo le due righe secche e mi siedo sul letto, non so con quale sensazione. Per un attimo mi viene un conato di vomito, ma trattengo, tiro un calcio alla sedia e mi accascio sul materasso. (gerardo picarelli)
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ZONA EST NOVANTA
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