Il 1986 – anno di composizione di Bordello di mare con città – segnò una sorta di spartiacque nel teatro napoletano. Si portò via Annibale Ruccello, enfant prodige della cosiddetta “nuova drammaturgia” post-eduardiana che, assieme a Moscato, Neiwiller, Santanelli, era emersa dalle macerie del terremoto dell’80, portando sulla scena una Napoli – e una Lingua – perturbante, lontana anni luce dal folclore dei mandolini e del caffè, in linea diretta con i grandi autori della tradizione, Basile, Viviani, Di Giacomo. Ruccello, appena trentenne, aveva già vinto due premi Idi, veniva da un lavoro complesso come Ferdinando e iniziava a imporsi come regista anche a livello nazionale. Oggi fanno trent’anni esatti dalla sua scomparsa in un incidente d’auto in cui morì anche Stefano Tosi, marito dell’attrice Cristina Donadio. Tante le commemorazioni, gli omaggi, i convegni che vengono assieme ad anni di sistematiche storpiature dei suoi testi sulla scena. Cosa sarebbe il teatro napoletano se il drammaturgo stabiese fosse ancora vivo, non ci è dato saperlo. Fatto sta che quell’incidente deviò il corso di molte vicende e i suoi effetti si riverberano ancora oggi, nel profondo del tessuto teatrale della città.
Nel 1986 Enzo Moscato scrisse due testi per l’amico: Compleanno, in cui gli universi drammaturgici dei due autori si contaminano e si contagiano in un dissacrante rito funebre affezionato e fraterno; Bordello di mare con città, fatto su commissione poiché il Teatro Nuovo, fusosi con la Compagnia “Il carro” fondata da Ruccello, aveva appena avuto un riconoscimento ministeriale. Occorreva, perciò, produrre un testo che però non è mai stato allestito, né andato in scena, se non in una edizione radiofonica curata da Servillo con Anna Bonaiuto e lo stesso Moscato e una versione amatoriale al carcere femminile di Pozzuoli. Fu comunque edito nell’Angelico Bestiario, raccolta della Ubu Libri che contiene la prima produzione di Moscato. «Franco Quadri sapeva che il testo aveva avuto delle vicissitudini, ma volle pubblicarlo – racconta Moscato –. Nella mia produzione dall’80 all’86, ogni testo rimanda all’altro. Bordello è un tassello di questa drammaturgia che all’inizio è fortemente, violentemente calata sulla città. Parlo esplicitamente di Napoli, non so se in seguito l’ho più nominata così prepotentemente. Qui do proprio i domiciliari: strada, vicolo, contro vicolo, piazza, piazzetta: l’habitat dove sono nato e cresciuto, cioè i Quartieri Spagnoli».
Si tratta di una scrittura complessa, ostica, che più degli altri lavori del drammaturgo va letta e riletta per scovarne i nuclei. Al centro, la vicenda di un ex bordello sui Quartieri ripulito a “succursale del Duomo” dopo i miracoli di una presunta santa ex prostituta, emblema di riscatto per tutta la città. Ma le abitanti dell’ex casino continuano a “zucculiare” e a “smerciare” alle spalle della santa che quando le scopre decide di sacrificare la giovanissima figlia dell’ex tenutaria del bordello, che muore in un “inspiegabile e grottesco” appartarsi col cardinale in visita alla santa. Un testo che contiene i temi ritornanti del teatro di Moscato: le genettiane e ossimoriche sante/puttane; il bordello come metafora di una città tutta, oltre a uno specifico spaccato antropologico. «Da bambini – dice ancora Moscato – eravamo portati dalle suore in questi santuari quasi casalinghi che c’erano sui Quartieri: Santa Francesca alla Speranzella, Suor Orsola al Corso, Montecalvario, San Sepolcro; quasi tutti i vicoli hanno dei nomi liturgici. La figura di Assunta, scavando scavando, la posso rintracciare in varie donne della mia vita infantile sui Quartieri. Donne piissime che andavano in chiesa, ma che contemporaneamente erano molto violente, se volevano. C’era una dicotomia, tra la santità e il demoniaco. E direi che tutta la natura di Napoli è così: è contemporaneamente questo e quello “tai kai tà”».
E poi c’è una violenza quasi cannibalica, bieca. “La smania d’o possess’” di queste ex prostitute in ascesa sociale e l’universo/vicolo dove “c’è ssempe nu Cristo che s’hanna j a mmagnà”. Da questo punto di vista, Bordello di mare ha anticipato delle spaccature, delle schizofrenie, delle scissioni «nel cuore civile o incivile della città». Va infine registrata un’anomalia strutturale, assolutamente non casuale: in tutta la produzione moscatiana dei primi anni Ottanta – Scannasurice, Triànon, Ragazze sole con qualche esperienza, Festa a celeste nubile santuario, Pièce Noire – questo testo è l’epitome di un certo tipo di teatro, la cui fine inevitabilmente coincide con la morte di Ruccello; è inoltre l’ultimo capitolo di una drammaturgia che apparentemente rispetta un concetto tradizionale di scrittura teatrale: primo e secondo tempo, personaggi, didascalia, con un primo atto lineare, quasi eduardiano e un secondo totalmente visionario, lirico, de-narrato. Forse questa è una delle difficoltà principali nel mettere mano a questo lavoro, terzo tassello di un complesso focus del regista Carlo Cerciello su Moscato, preceduto dal riallestimento di Signurì, Signurì e di Scannasurice. A detta dello stesso Moscato, la messa in scena mai realizzata di questo testo dopo trent’anni «fa da raccoglitore e come un fiume che scorre si porta via tutti i detriti».
E in effetti, di raccolta di tutta una serie di elementi significativi si è trattato. A cominciare dalla scelta del cast che, oltre a Imma Villa che l’anno scorso aveva letteralmente mangiato la lingua di Scannasurice, include Cristina Donadio, attrice storica di Moscato; Fulvia Carotenuto, attrice storica di Ruccello così come Lello Serao, cui si sono aggiunte le giovani Ivana Maione e Sefora Russo (quest’ultima proveniente dal laboratorio del teatro Elicantropo). Altra particolarità è la presenza stessa di Moscato in scena che, nella meta-teatrale parte dell’autore e meta-narratore d’eccezione, è il perno equilibrante di tutto l’allestimento. Del fatto che Bordello di mare sia il tassello di una visione più ampia, per certi versi ciclica, di Cerciello, ce ne rendiamo conto dal pre-prologo: la voce di Moscato ripete la filastrocca che aveva chiuso Scannasurice; subito dopo la grande struttura/loculo che Imma Villa aveva percorso in alto e in basso durante quello spettacolo cade con un rumore sordo che segna una cesura netta. Lo spettacolo si apre così nel salotto di un ex casino in technicolor, dove troneggia il ritratto dell’ex tenutaria del Bordello, Zì Rusina Abbate. Altro raccordo e doppio salto meta-teatrale: il ritratto (che nel finale lo stesso Moscato ripone simbolicamente nel feretro in scena) altro non è che una bellissima foto di Peppe del Rossi di Annibale Ruccello ne Le cinque rose di Jennifer. Ruccello ritorna, per gli orecchi più attenti, nello stacco tra il primo e il secondo atto che Cerciello decide di sottolineare con delle luci abbaglianti sulla platea: mentre il sipario si chiude, ascoltiamo una registrazione della voce di Ruccello/Don Catellino in Ferdinando che Fulvia Carotenuto fece fare durante una replica al Teatro Cilea nel 1986.
Se il primo tempo è naturalistico, quasi di maniera, il secondo sconfina in una partitura visionaria che Cerciello codifica in un cantato/recitato semicorale con assemblaggio musicale Coletta-Westkemper del tutto destabilizzante in cui si perde un po’ la bellezza della lingua moscatiana ma che rende perfettamente lo stacco. «Sicuramente chi ha visto lo spettacolo si rende conto che tutta la seconda parte è spudoratamente anni Ottanta – spiega Moscato –. Bordello di mare chiude questa fase: come persona, come artista credo che avessi desiderio di sperimentare altri territori e poi la chiude, e nello spettacolo si percepisce molto bene, perché dopo la morte di Ruccello, la morte violenta improvvisa, inattesa, disumana di Ruccello, stavo là là per lasciare il teatro. Ricordo che la sera in cui è morto Annibale ci siamo incontrati con una decina di suoi amici sui gradoni di Chiaia; tutti dicevano: “Adesso ci sei tu, ci sei rimasto tu, ti prego, ti prego”. A me questo “ti prego” mi pesava. Da filosofo, pensai che nulla valeva questo. Il corto circuito tra un “prima” e un “dopo” si legge bene, c’è un primo tempo lineare e poi un cantare e decantare soltanto la morte, l’impotenza che secondo me è anche lo specchio di ciò che noi, non soltanto Napoli e l’Italia, in questo momento stiamo vivendo».
A trent’anni della scomparsa di Ruccello, in un contesto teatrale che, nonostante riforme o presunte tali, non sembra essere molto mutato da allora, l’operazione di Cerciello – coprodotta da Elledieffe, compagnia di Luca De Filippo – appare epocale, al di là della stessa messa in scena: non solo perché apre definitivamente la via verso il considerare a tutti gli effetti Moscato un classico, ma per tutte le questioni – vecchie e nuove – che questo allestimento porta con sé, non ultima la necessità di dare nuova stampa a testi della drammaturgia contemporanea (napoletana e non) ormai difficili da trovare dopo la chiusura della Ubu. Bordello di mare con città, come Scannasurice, sottende inoltre una profonda matrice politica che ben si sposa con la poetica di Cerciello. «Non fare mai il paragone con ciò che sono i Quartieri oggi e in cui io ancora vivo – conclude Moscato –. Queste cose le hanno dette prima di me Fabrizia Ramondino, Annamaria Ortese, Patroni Griffi. Mettendo nel conto una buona dose di nostalgia e una personalità immaginifica come la mia, resta l’impressione che prima vi fosse una concordia, un’armonia, un desiderio di rapporto con l’altro benevolo. Ora l’altro viene esorcizzato. Ci siamo allontanati. Bordello lo dice molto bene. E questo è dovuto sicuramente a un abbandono politico della città». (francesca saturnino)
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