È in libreria a Napoli – e dalle prossime settimane anche a Roma, Milano, Torino, Firenze, Bologna, Venezia – il numero zero de Lo stato delle città. Pubblichiamo a seguire un’anteprima dell’articolo di Riccardo Rosa: Dentro la Trap. Viaggio nell’Insta-Music.
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«Ma a te ti piace la musica o il fumo?». È questa la domanda che mi ha ossessionato nei due mesi in cui mi sono lasciato travolgere dalla musica trap, ascoltando brani, guardando video, leggendo testi di canzoni e interviste agli autori, chiacchierando con producer, cantanti e ascoltatori. Nel vecchio film di Lello Arena e Massimo Troisi in cui veniva pronunciata questa frase, era James Senese a inveire contro un giornalista del Mattino che gli chiedeva come mai il suo palco fosse spoglio, privo di effetti speciali, “quasi povero”. La riposta del sassofonista voleva avere un significato più ampio, riproponendo l’eterna questione: è più importante, in musica come nelle altre arti, la forma o il contenuto? Una pietanza scadente ma “impiattata” in maniera fantasiosa, risulterà alla fine più digeribile? Insomma, “come dirlo”, è più o meno importante di “cosa dire”?
«Dei testi non se ne frega nessuno, fidati», mi ha spiegato 90Spider, diciottenne che frequenta un’accademia musicale cittadina dove studia teoria e solfeggio, produzione e registrazione delle voci, utilizzo delle daw (i programmi per la registrazione, l’editing e l’assemblaggio al computer delle diverse sonorità). «I ragazzi ascoltano la trap per due motivi. Il primo è perché è di tendenza, che è diverso da “moda”: tendenza è il termine che utilizza Youtube per mettere in primo piano le cose più ascoltate. E se tu dici: “Andiamo a vedere cosa sta ascoltando il mondo oggi”, e poi lo senti due, tre, cinque volte, alla fine ti piace. È lo stesso meccanismo della pubblicità. Il secondo motivo, ed è il mio caso, è perché la musica, il beat, sono fatti bene. La voce, il testo, vengono dopo».
Atlanta calling
La musica trap nasce negli Stati Uniti alla fine degli anni Novanta. Le influenze sono quelle dell’hip hop del sud del paese, e ancor prima del Miami Bass, genere tra la dance e l’hip hop caratterizzato dall’uso massiccio di bassi pesanti e testi piuttosto “sconvenienti”. Ma se 2Live Crew e compagnia non riescono mai veramente a sfondare, è uno dei due gruppi fondamentali del Southern rap (gli Outkast, mentre gli altri sono i Goodie Mob) a sdoganare la trap nel paese e quindi nel mondo, prima come vocabolo, e poi come sonorità. “The United Parcel Service and the people at the post office / didn’t call you back because you had cloudy piss / So now you back at the trap just that, trapped / Go on and marinate on that for a minute”, cantano in SpottieOttieDopalicious (1998). “Così sei di nuovo nella trap (house), in trappola”: la parola chiave di questi anni, fino a quel momento rimanda ancora alle trap house, case abbandonate in edifici solitamente in decomposizione, nella periferia di Atlanta, dove le dosi di crack e cocaina vengono preparate e vendute al dettaglio. Almeno fino all’inizio degli anni Duemila il termine mantiene una connotazione legata al mondo della droga: trapping, si dice in slang, nelle città del sud, per indicare le operazioni di spaccio. Con il passare del tempo l’espressione comincia a essere associata alla musica che in quegli ambienti si sviluppa, si diffonde, si ascolta.
All’inizio è un rap spigoloso nei contenuti e lento nei beat. Progressivamente, del Southern rap la trap accentua alcune caratteristiche, aggiungendone di nuove, fino a definire una propria identità. L’atmosfera è cupa, grazie all’utilizzo combinato di bassi e sonorità elettroniche, riprendendo una strada che era stata tracciata da alcune produzioni di synth-rock e di industrial; come il beat, anche il messaggio riflette un retroterra disincantato e nichilista: siamo nel decennio della grande crisi economica e chi canta, chi suona, chi ascolta, in questo contesto è cresciuto. Se la crisi non accenna a finire, musicalmente in una dozzina d’anni la trap si prende la scena: ai Grammy di gennaio 2018, Record of the year è un pezzo di Bruno Mars pieno di sonorità elettroniche e voci in autotune; tre dei cinque nominati tra gli artisti emergenti fanno trap o sperimentano influenze trap sui generi musicali a loro affini; la miglior interpretazione nella categoria rap è un duetto esplicitamente trap tra Kendrick Lamar e la pop star Rihanna. Gli scantinati di Atlanta sono un lontano ricordo, in un processo di rimozione a trecentosessanta gradi. Emblematico è il destino della cosiddetta “dab dance”, nata nella scena musicale della città, sdoganata nel paese dai cestisti Nba e dai giocatori di football come esultanza, portata in Europa da calciatori famosi (in Italia il primo fu Pogba) e addirittura ballata in diretta televisiva dalla candidata democratica alle elezioni Hillary Clinton. Chissà se l’ex first lady sapeva che il termine “dab” (verbo: tamponare; sostantivo: macchia) viene usato dai ragazzi del sud per indicare il consumo dell’olio di hashish.
Il fumo, quindi, ma anche la musica. Quando parliamo di trap, parliamo di un beat e di un flow lento, sonorità elettroniche che vengono per lo più dalla drum machine Roland TR-808, bassi distorti e un tempo che varia tra i 70 e i 78 Bpm. Le voci si servono in abbondanza dell’autotune, la parte strumentale è di solito realizzata con sintetizzatori e Vsti (acronimo per: strumenti musicali virtuali), le melodie sono volutamente ripetitive, complementari a testi che procedono per flash, producendo immagini, fotografie, concetti più che narrazioni. Nelle liriche dei trapper riecheggia quel tipo di rap, preponderante negli ultimi anni, i cui testi si sono lasciati alle spalle tanto le tematiche sociali quanto lo storytelling del ghetto, ma si articolano su quattro o cinque questioni, declinate fino all’ossessione: la ricerca dei soldi come unico possibile riscatto, l’identità di periferia, gli atteggiamenti gangsta e la bella vita, le notti nei club, le macchine costose, la droga, l’oro come status symbol del “ce l’ho fatta”. Certo, sarebbe superficiale generalizzare davanti a una galassia di autori che è già vastissima, e a un genere che si pone in contrasto con la tradizione (sebbene molti tra i cantanti abbiano un passato nel rap, anche se spesso senza successo). Nella sua versione esportata nel vecchio continente, avviene così che la trap assorba e riproduca i contesti in cui viene ascoltata. Può capitare quindi che in Francia canzoni come Le Monde ou rien (il cui video alterna immagini girate nelle banlieue parigine e nelle Vele di Scampia) si guadagnino il favore degli attivisti dei movimenti sociali, non solo i giovanissimi, fino a diventare la colonna sonora di cortei e manifestazioni contro la Loi-travail.
Musica da guardare
Napoli, assolato pomeriggio di metà gennaio. All’esterno della Feltrinelli di piazza Garibaldi centinaia di ragazzini aspettano l’arrivo del loro idolo, per strappargli una foto e una firma sull’album (l’unica cosa che spinge ormai le case a produrre dischi e gli under 40 a comprarli). Per disciplinare la fila diversi agenti e vigili urbani si sbracciano pigramente. L’atmosfera è festosa e nonostante l’entusiasmo i ragazzi sono molto composti. L’età media è sotto i diciotto; molti arrivano da fuori Napoli, come Milo, quattordici anni, entroterra casertano. Nel suo paese il treno non passa, e delle tratte locali che attraversano quelli vicini non si fida. Così si è fatto accompagnare dalla madre a Caserta, ha preso il regionale, e sempre dalla madre si farà recuperare in serata, a Napoli. Si è messo in fila insieme ad altri che non conosce, e lì è rimasto per due ore, con in mano l’album Rockstar e la sua felpa rosa-nero, i colori di Sfera Ebbasta, ventiseienne icona della scena trap nazionale.
La storia di Sfera è abbastanza comune a quella di altri trapper di successo. Nato nella periferia milanese, tenta timidamente, senza grandi risultati, la strada del rap. Poi conosce il produttore di beat giusto (Charlie Charles, il migliore per il genere) e comincia a sperimentare le sue metriche su suoni diversi. Incide un disco che viene ripubblicato dopo qualche tempo da Roccia Music, l’etichetta indipendente di Marracash e Shabloo, due icone del rap meneghino. In questa nuova versione dell’album c’è la canzone Ciny (che sta per Cinisello Balsamo), uno dei pezzi trap più conosciuti, che attualmente conta più di undici milioni e mezzo di visualizzazioni su Youtube. Sfera Ebbasta è oggi uno dei cantanti di riferimento per gli ascoltatori tra i quindici e i vent’anni.
«A me piace la sua musica. Mi diverto con gli amici a sentirla nel parco con la cassa o a casa», mi spiega Milo. «E poi parla di noi, di quello che facciamo quando stiamo per strada e a scuola, di come vanno le nostre vite». In realtà da Ciny e dalla maggior parte dei testi di Sfera non emerge un vero e proprio racconto dei sobborghi milanesi, ma una serie di istantanee su cui si rima, in maniera spesso molto efficace, senza che vi sia bisogno di intrecciarle in una storia. Questo legame con l’immagine (Gue Pequeno ha definito la trap “musica da guardare”) è un elemento fondamentale del genere perché riflette la predominanza del linguaggio visivo, che nel caso specifico soppianta quello orale; solo su un secondo livello, come colonna sonora di questo flusso visuale, c’è la musica, il beat, in un’accoppiata che rende il testo, a quel punto, qualcosa di accessorio. Non è un caso che la maggior parte dei cantanti trap non pubblichino album, se non dopo avere sfornato almeno tre o quattro videoclip di successo, sempre molto curati, con un’estetica ben definita da elementi di cui sembra non si possa fare a meno: le atmosfere dark (molti video sono girati in bianco e nero, o comunque con predominanza di tonalità tra il grigio, il blu notte e il nero), i primi piani al cantante e alla sua crew (anzi, “gang”) sullo sfondo dei palazzoni di qualche 167, l’utilizzo del drone per le riprese dall’alto, il montaggio serrato, quasi uno scorrere di diapositive, o per dirla in maniera meno antiquata, di foto che compongono una “storia” su Instagram.
«Forza, scriviamo una canzone!», mi ha recitato un amico dj, fan della scena cittadina e nazionale, per descrivermi la genesi standard di un pezzo trap. «Che cosa facciamo oggi? Ci facciamo le canne? E allora scriviamo una canzone su noi che ci facciamo le canne!». La caricatura non sembra andare molto lontano dal vero; ascoltando con un po’ d’attenzione le canzoni si percepisce una certa difficoltà a scendere in profondità, ma anche a incastrare le rime o a costruire un flow più articolato. Attitudini che a loro volta comunicano qualcosa, accomunando le vite degli adolescenti, da Sesto San Giovanni a Ponticelli, nella difficoltà di produrre un racconto della propria realtà, di soffermarsi su qualsiasi cosa per più di una manciata di secondi; ma anche la rassegnazione per un quotidiano sempre uguale e sempre più difficile da eludere (“Nati e morti a Ciny”, Sfera), la dipendenza dal consumo (“Sogno montagne di soldi e vari modi per spenderli”, Dark Polo Gang), la diffusione di nuove droghe (“Versa amarena e codeina”, Tedua), il contrasto tra la povertà dei rioni popolari e la città bene (“Ma ci hai visti, dove stiamo di casa?”, Vale Lambo). Certo, le vite di Milo e dei suoi amici, e i loro pomeriggi nel centro storico di Gricignano di Aversa, sono molto diverse da quelle dei loro coetanei che crescono tra i palazzoni di Baggio o di Abbiategrasso, così come per la maggior parte dei giovani ascoltatori della trap – e probabilmente anche per molti cantanti – le notti brave tra champagne, banconote e anfetamine sono solo una fantasia. In quel caso il processo di identificazione avviene su altre basi: oggi sono ciò che vorrei essere; esattamente come accade ai ragazzi della Napoli bene che imitano “l’accento delle case popolari” (da qualche anno le frasi di Gomorra) per sentirsi più “cattivi”. E poi c’è un elemento comune, buono per tutti i quartieri di tutte le città di tutto il mondo: l’identità. (continua…)
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