
La casina del principe fu inaugurata nel 2008, ospitando per la prima volta in Campania la “mostra impossibile” dedicata a Merisi. Il battezzo ne faceva così intendere la funzione con i suoi spazi dedicati alle arti e alla cultura. Storica proprietà fatta costruire dai Caracciolo agli inizi del Seicento per trovare dimora durante i soggiorni di caccia, ospita dal 2009 il palco sperimentale del festival di media art Flussi. Si tratta di una realtà che tanto piace a un pubblico fedele alla sua militanza musicale. L’edizione di quest’anno, dal titolo “minus habens”, ha voluto riaffermare l’importanza del suo stato di minorità rispetto al contesto socio-economico nel quale siamo inseriti. Bisogna pur riconoscere che l’audizione musicale continua a costituire spesso un incontro mondano, al quale i membri della società illuminata non possono sottrarsi: che si tratti di un quartetto di Brahms o di Studio II di Stockhausen, la fruizione di questi momenti porta ancora in sé qualcosa di pacificato, data l’assuefazione a riti di partecipazione che non si sono rinnovati tanto quanto le forme artistiche performate.
Persiste una differenza, non solo economica, tra il palco sperimentale e il palco principale, posizionato sul terrazzo del teatro Carlo Gesualdo. Sebbene si corra il rischio di offrire un’idea tanto confusa quanto complessa per i meno esperti in materia, va riconosciuta nella diversa gestione degli spazi un atto quasi politico: lasciare lo sperimentale gratuito e far pagare un biglietto per performance più “democratiche” nonché più standard quanto a orari. Certo, l’associazione culturale Magnitudo tessera i partecipanti in modo da offrire alle istituzioni partner un bilancio che rendiconti i numeri della manifestazione. Fatto sta che è diventato l’appuntamento di una popolazione artistica, per lo più di orbita napoletana, che ad Avellino viene a chiudere l’estate; o a prepararsi al più leggero autunno.
Il 25 agosto ho assistito a una composizione di luci e suoni in occasione della festa patronale dedicata a San Pellegrino, quando i giochi pirici avevano illuminato il campanile della chiesa madre di Altavilla Irpina. Uno spettacolo davvero di massa in grado di propormi affinità effettive, nonostante la diversa tecnologia impiegata. Il giorno dopo ho raggiunto Avellino per ascoltare Les énervés, un duo napoletano devoto alla ricerca sonora più radicale.
Arrivo giusto in tempo per dare un’occhiata alle installazioni posizionate negli spazi chiusi della casina e ne resto meno preso che l’anno scorso, quando c’era più interattività nelle opere presenti. Pneuma di Matarazzo e Phonesthesia di Casillo-Sommaiuolo hanno comunque arricchito l’offerta di un festival che fa della pluralità il suo punto di forza.
Renato Grieco (no-input mixing board, microfoni, speaker, dispositivi elettromagnetici) e Giulio Nocera (Revox b77, laptop, oggetti amplificati) sono posizionati l’uno di fronte all’altro, come giocatori di ping pong pronti a far interagire i propri dispositivi con le proprie gestualità. L’intro è particolarmente densa quanto a materiali impiegati e pressione acustica. Mi faccio una camminata sul perimetro rettangolare dello spazio all’aperto in cui il concerto si tiene per sincerarmi della diffusione quadrifonica (quattro flussi autonomi da quattro diffusori posizionati in punti diversi). Difficile proporla a casa nostra. La spazializzazione del suono però è difficilmente apprezzabile nella sua totalità, se non fosse per la coerente scelta dei performer di evidenziare le condizioni di questo ambiente tecnologico. Il primo segmento chiaramente riconoscibile parte da una mistura di voci che si rarefanno in una nube di respiri, mentre le basse frequenze s’inseriscono per sostenerne la trama. Il mutare dei materiali diventa incessante. Il festival non può rinunciare al suo lato comunicativo, dunque si scattano foto a un figurante che indossa la maschera di una scimmia mentre si tiene il concerto. Dopo un intenso lavoro di convoluzione su uno stesso segnale sonoro, ci troviamo spiazzati ad ascoltare dei passi che risuonano intorno. La drammaturgia sonora è quella di un cinema cieco, che chiama in causa sonorizzazioni filologiche – come quelle di Tati, per esempio in Playtime – portate all’estremo per riempire un “vuoto” visuale. Dialogano ora le sirene e l’acqua, sapientemente disposte. Nel terzo segmento, mentre la sovrapposizione di fasce sonore di diversa frequenza ricama il tessuto audio, il lavoro sul Revox77 diventa sempre più evidente. Le risonanze tra speaker e diapason sono emblematiche sotto il profilo della produzione del suono, così coerente nell’esplorare il campo di possibilità a disposizione. Segue tutto un gioco di illusioni acustiche ottenute attraverso un glissando discendente infinito: si tratta di stratificazioni di suono in movimento secondo un determinato sistema per cui, quando un certo numero di loro scende di frequenza fino a un certo punto, ne partono altre. La logica del cutting diventa evidente, aggiungendo ulteriore complessità al dispositivo montato in tempo reale. La quadrifonia si erge a parametro costruttivo, stavolta apprezzabile pienamente grazie alla canalizzazione dei flussi sonori. Suoni strozzati tra cui si agitano delle basse frequenze. C’è del groove.
Si vira poi dolcemente sulle palpitazioni; l’attesa viene costruita con un loop che prepara una mistura di alte frequenze, prima di un brevissimo momento di silenzio. Si riprende dalle basse frequenze; poi un pulviscolo di grani che si agitano caoticamente prima di placarsi in un nuovo andamento tessiturale. La gestualità inizia a farsi più circolare, si acuisce e di colpo ci si trova spiazzati in un altro, nuovo segmento: un vicolo cieco in cui si resta intrappolati, elogio del noise che si fa glitch, prima di scavare le frequenze fino a un intensissimo momento più marcatamente industrial. La pressione sonora costringe all’ascolto. Verrebbe da chiedersi se sia più per la plasticità della materia suono che per la sua acclarata funzione denotativa. Inserti di silenzio spezzano il discorso musicale, mentre la permutazione riscrive continuamente i segnali sonori lanciati. Il finale chiude la circonferenza aperta in inizio di composizione con un campione di suoni minimo che, messo a loop, ne determina la struttura.
Termina il concerto. Applausi e conati vocali accompagnano il saluto dei due musicisti, simili anche fisiognomicamente tra loro, diversi di sicuro nel colore della camicia indossata. Segue una performance nichilista agita mediante un continuo lavoro nel campo di possibilità della percussione elaborata attraverso l’elettronica. Cerco qualcuno con cui dividere del torrone per festeggiare il mio compleanno. Nessuno vuole rovinarsi l’appetito col dolce prima di cenare. (antonio mastrogiacomo)