Dal n. 58 di Napoli Monitor
Quella serata al Bunker, storico locale notturno dalle parti di Licola, se la ricordano tutti. La maggior parte di quelli che ne parlano oggi, a dire il vero, in quegli anni non erano neanche nati. Eppure vulgata popolare vuole che al Bunker, quella volta, il “re dei night” ci avesse infilato cinquemilaottocentosei persone. Era la fine degli anni Ottanta. Sergio sarebbe stato ancora in pista per qualche anno come PR, prima di ritirarsi dalle scene. Al Bunker, quella sera, ci aveva portato i rampolli migliori della città, e ragazze bellissime che se lo mangiavano cogli occhi. Qualcuno nomina pure Maradona, che in quanto a vita notturna non si faceva mancare niente. Improbabile che fosse lì, in realtà, sotto gli occhi di tutti e circondato dai figli di una Napoli di professionisti e classi dirigenti. È un fatto, invece, che da quel giorno “cinquemilaottoessei” era diventato il documento di riconoscimento e il passepartout di Sergio Five, vomerese di via Caldieri e icona della movida della Napoli bene. Quello che portava i ragazzi del Vomero e di Chiaia a ballare.
Sergio era nato all’inizio degli anni Cinquanta, quando i vomeresi in città erano ancora ‘e piere ‘e vruoccol’. Della sua vita tutti sanno tutto e nessuno sa niente. I ragazzi di piazza Vanvitelli lo hanno conosciuto già avanti negli anni, contribuendo a consolidarne la figura di mito, ma con l’aiuto di qualche genitore autoctono ne hanno ricostruito pezzi di vita precedente. Gli aneddoti sono contraddittori, confusi, tracciano la storia di una persona nota a tutti ma della quale a pochi sembrava importare realmente. Un tipo buono, gentile con tutti e un po’ strano, che ciondolava da mattina a sera tra via Scarlatti, piazza Vanvitelli, piazza Fuga, via Aniello Falcone. Uno a cui piaceva parlare, ossessionato dagli altri e dalla loro compagnia, che ricercava (e trovava) aggirandosi da solo per le strade del quartiere. Al suo fianco, secondo l’epica vomerese, si erano alternati in gioventù altri elementi dediti alla bella vita, con i quali aveva condiviso anni di successi, donne e divertimenti, anche se, pare, senza mai grosse quantità di soldi da spendere. Tra loro molti raccontano del Professore, di cui Sergio aveva continuato a parlare per anni, ma che in pochissimi hanno conosciuto.
Piazza Vanvitelli è il cuore pulsante del Vomero. È la piazza verso quale la collina si inerpica scalando l’isola pedonale di via Scarlatti, e dalla quale la stessa continua a salire, destinazione San Martino: “Il panorama più bello della città”, dicono i local. “La piazza dei compleanni”, dicono i local più giovani. Dove raggruppi venti amici, due bottiglie di spumante e risparmi sui festeggiamenti.
Piazza Vanvitelli è una piazza di transito, tanto per i pedoni quanto per le automobili che girano attorno alla palma che presidia la piazza, alla ricerca dello sbocco giusto per venir fuori dall’ingorgo. Ma è anche una piazza di bivacco, soprattutto per due categorie di vomeresi: quelli che hanno bisogno di una pausa dall’estenuante shopping di via Scarlatti e via Luca Giordano, e gli studenti della zona. Attorno al mulinello roteante che attraversa Vanvitelli, infatti, gravitano i ragazzi delle scuole circostanti: i gruppi di studenti del liceo Sannazaro, di cui fanno parte per tradizione i figli della borghesia di sinistra del quartiere; quelli più piccoli, delle medie Lettieri e Giulio Cesare; poi i ragazzi dei Salesiani, ricchi e rumorosi, provenienti un po’ da tutta la città; o quelli della scuola privata Errekappa, specializzata nel “due in uno”, il recupero di anni scolastici per gli scapestrati più impazienti. Raramente, per motivi anagrafici o sociali, le comunità si mescolano, rimanendo ognuna sulle proprie rituali mattonelle, soprattutto nella prima ondata di vita della piazza, quella tra le 12 e le 15 che coincide con l’uscita dalle scuole. Il bivacco in questa prima fase, rispetto a quello più coordinato dell’ora dell’aperitivo (tra le 19 e le 21) è abbastanza spontaneo: un momento per guardarsi in faccia dopo cinque o sei ore tra i banchi, per spettegolare sulla condotta sessuale di quella della terza C, per organizzare il pomeriggio prima di stravolgerne il programma altre venti volte. “Mah, niente…”, ti rispondono se gli chiedi cosa fanno.
Sergio cominciava a girovagare tra l’isola pedonale e la piazza la mattina intorno alle dieci. Sembrava spuntare da un cespuglio all’apertura dei primi negozi, e cominciava una corsa a tappe che lo avrebbe visto in giro fino a notte inoltrata. Con il sole, la pioggia, e in qualche circostanza persino la neve. Il tabaccaio De Sanctis, via Scarlatti; la Dolce Vita, bar dove qualcuno gli avrebbe offerto un caffè; il grosso portone del palazzo di piazza Vanvitelli, dove si intratteneva a chiacchierare con il portiere; la Fonoteca, piazza Fuga. Non aveva orari, non si capiva bene se e quando rientrasse a casa per pranzo o cena. D’altronde era magrissimo, e non aveva certo i soldi per mangiare per strada. Qualche anno fa, dopo che un nipote aveva reclamato per sé la casa di famiglia, Sergio aveva fatto senza grosse polemiche armi e bagagli, e si era recato da una vecchia zia a Chiaia, di cui decantava spesso l’arte della pasta e patate.
Con il passare degli anni il suo stile da dandy era stato compromesso dagli abiti unti e ormai logori, che gli cadevano addosso sempre più larghi, ma che portava con lo stesso senso di dignità degli anni in cui era stato indiscusso “re dei night”. Se davvero lo fosse stato, è difficile da dire. Sergio raccontava un mare di storie sulla sua vita, non tutte vere, talvolta autoconvincendosi di un passato glorioso, così come non è mai stato chiaro se credesse davvero alle storie improbabili che ragazzini con cinquant’anni meno di lui gli raccontavano per assecondarne i viaggi in una realtà parallela. «La testa gli funzionava fin troppo bene – racconta qualcuno – per uno che passava la giornata intera in mezzo ai quindicenni». La maggior parte di loro, probabilmente, lo assecondava solo per il gusto di prenderlo per culo.
Angelo è uno di quelli che Sergio l’ha conosciuto bene. Ex studente del liceo Sannazaro, ora aspetta di capire cosa il futuro ha in serbo per lui, «…intalliandomi un po’». Frequenta piazza Vanvitelli da quando era adolescente, e per più di dieci anni ha incontrato Sergio Five tutti i giorni. Per un lungo periodo era riuscito a fargli credere che suo padre provasse un forte senso di inferiorità nei confronti dell’ex PR, pur conoscendosi i due solo di vista. «Ma no, papà nun adda fa’ accussì», replicava Sergio imbarazzato e sentendosi un po’ in colpa. I ragazzi del gruppo di Angelo li conosceva tutti, come conosceva i nomi di quasi tutte le centinaia di ragazzi che frequentano la piazza. Dai trenta ai quindici anni. Quando la chiacchierata con i membri di una di quelle che negli anni Novanta venivano chiamate “comitive” era ormai satura, e Sergio aveva dispensato consigli (non sempre richiesti) su come passare la serata, quali bar frequentare per l’aperitivo e quali locali per la notte, il vecchio maestro si spostava di qualche metro, lasciandosi cooptare dal successivo capannello di gente, e poi da quello dopo ancora. Con il passare degli anni quelli più grandi cominciavano a conoscerlo e a volergli bene, superando il rapporto cinico-adolescenziale che avevano coltivato fino a qualche anno prima. Le conversazioni si facevano più intime, mentre con i più giovani si continuava a parlare di nulla, e il registro linguistico oscillava sempre tra il gergo e lo sfottò.
Gli abitanti della piazza (non intesi solo come residenti, ma anche chi nella piazza ci lavora), in realtà, gli adolescenti di Vanvitelli non li possono soffrire. La marmaglia rumorosa che inonda il circo(lo) all’aria aperta nel primo e nel tardo pomeriggio risulta ai loro occhi, nell’ordine: invadente, scostumata, casinista, portatrice di atteggiamenti sessuali inconvenienti, dipendente dall’alcol nonostante la giovane età. Si registra l’inconsueta assenza per questo genere di classifiche degli aggettivi: tossici, drogati e/o punkabbestia. Siamo pur sempre nella Napoli bene. Tra questi, a fare buon viso a cattivo gioco, ci sono i gestori dei bar che negli ultimi anni hanno invaso la piazza sottraendola fisicamente al presidio dei chiattilli. Loro, i proprietari dei bar, i ragazzi li amano perché gli riempiono le tasche a getto continuo, tra cocacole e prosecco a seconda dell’età; ma li odiano anche, in un misto di frustrazione (sentimento ancora più forte tra i ragazzi che li servono ai tavoli, provenienti tutti da quartieri più popolari) e disgusto provocato dallo spettacolo di orde di figli di papà la cui attività principale, nonché meglio riuscita, è quella della perdita del tempo.
L’invasione dei bar è iniziata all’inizio del secondo decennio dei Duemila. Nessuno ricorda bene chi abbia cominciato, ma quando qualcuno tra i cinque locali che dominano la piazza ha iniziato a mettere in regola i propri permessi di occupazione di suolo pubblico, e a disporre sui marciapiede degli enormi gazebo che separano i tavolini dal passante attraverso un pesante e orribile telone di plastica trasparente, l’effetto domino è stato incontrollabile. Se il tuo bar terminava sulla soglia della porta d’ingresso, anche se era al centro della piazza, eri uno sfigato. Se eri uno sfigato i ragazzi avrebbero cominciato a snobbarlo. La soluzione a quel punto era una sola: gazebo. E il risultato è che oggi nemmeno i colombi riescono a trovare lo spazio per camminare in pace o stare fermi a fissare l’orizzonte. L’invasività dei bar sul suolo della piazza ha anche degli effetti sociali rilevanti. Fino a una decina d’anni fa, per esempio, tra i punti di ritrovo privilegiati dei ragazzi spiccavano le fioriere circolari e le ringhiere delle metropolitane; le selle dei motorini e le mura dei palazzi. Oggi, nella “società del bar”, il superamento di queste arcaiche modalità è cosa assodata per tutti, tanto che i più giovani tra i frequentatori della piazza etichettano come “zingari” quelli che preferiscono scambiare due parole in piedi “pur di non spendere due euro per un caffè”.
La categoria degli zingari si estende tra i più radicali tra gli adolescenti anche ai coetanei dediti alla pratica del compleanno all’aperto (o al risparmio) nel suggestivo scenario del belvedere di San Martino. Peggio di loro, nelle gerarchie dei ragazzi di Vanvitelli, ci sono solo gli invasori, quelli provenienti dai quartieri popolari (in metro o in motorino) che nel week end inondano il miglio scarso tra via Luca Giordano e la piazza. Quelli che negli anni i vomeresi hanno chiamato di volta in volta tamarri, mao-mao, “quelli di Secondigliano”, animali, cuozzi, tarzanielli, e che in realtà non differiscono poi troppo dai loro coetanei collinari, se non nei colori dei vestiti solo un po’ più accesi e nelle suonerie dei cellulari, da cui fuoriescono le canzoni più note dei cantanti neomelodici.
Sergio Five è morto di infarto poco più di un anno fa, in via Luigia Sanfelice, a pochi metri da piazza Vanvitelli. Fatale gli è stato il cuore, ma probabilmente anche le sue condizioni di vita, a cominciare dallo stare per strada tutto il giorno, mangiando pochissimo, accettando in compenso più di un bicchiere di vino offertogli da qualche frequentatore della piazza o vecchio amico. Per tanti ragazzi di piazza Vanvitelli anche il suo funerale è stato un evento, al pari delle tante serate mondane di cui Sergio raccontava. Ci sono alcune riprese in cui quindicenni e quarantenni a cui viene chiesto di ricordarlo vengono intervistati, snocciolando una sequela di banalità sul suo modo di essere, dimostrando di conoscere poco più che una maschera.
Poco dopo la sua morte è stata organizzata una veglia a cui hanno partecipato decine di simil-Gianfilippo&Gianmaria, personaggi cult di una storica trasmissione in onda anni fa sulle reti libere, che facevano il verso ai chiattillivomeresi procedendo per stereotipi facilmente verificabili anche dall’occhio meno allenato. Nessuno di quei ragazzi aveva mai messo piede a La Gabbia, al Pentotal, al Bunker, i locali che avevano consacrato l’epopea di quello che amava definirsi il Paul Newman del Vomero, parlando sempre di sé in terza persona. Forse Sergio fino all’ultimo ha fatto finta di non vedere le risatine e lo sguardo di compatimento che molti riservavano ai suoi vestiti sempre più larghi e ai Ray-Ban enormi e sgangherati, preferendo dispensare consigli anche a chi non li meritava, su una dolce vita che dolce forse non è mai stata. Era il modo migliore per ritrovare il sorriso di qualcuno tra quelli che gli volevano bene, e che alla vigilia di Natale si presentavano in piazza con una bottiglia di vino rosso, da bere in memoria di tempi che non avevano mai vissuto, ma conoscevano ormai alla perfezione. (riccardo rosa)