“Pe’, ma che significa sto sogno?”, chiese Eduardo un po’ intontito.
Senza battere ciglio l’amico rispose: “Edua’ è periferia!”.
“Ma in che senso?”, incalzò Eduardo ancora più confuso,
ma Peppe senza scomporsi rispose ancora:
“Eduardo, la periferia è mentalità e la mentalità è periferia, hai capito?”.
“Veramente no”, rispose Eduardo.
“Eh, mo te lo spiega Peppe…”, fece quindi,
e subito dopo, col suo dito sottile,
indicò verso un punto imprecisato.
“Cosa vedi?”, disse.
“Niente”, rispose Eudardo.
“Bravo! E tu niente devi vedere. Annusa! Che senti?”.
“Niente Peppe…”.
“Bravo! E tu niente devi respirare! Prendi, Edua’!”.
“Ma che cosa?”.
“Niente Edua’! Perché tu niente devi avere e niente devi dare!
E ora Eduardo, ascolta…”.
Ed Eduardo, curioso di sapere dove l’amico volesse arrivare,
si mise a imitare quello che faceva Peppe,
mettendosi una mano vicino all’orecchio. […]
(storia anomala di un cammello di periferia,
estratto di un’improvvisazione teatrale;
laboratorio di scrittura e teatro / maestri di strada)
Il Buco descritto da Arianna Dentice, scritto con il quale ci eravamo lasciati nel precedente articolo, è un simbolo, ma è anche un’immagine: è il cratere, dal quale nel 1787 Johan Wolfgang Goethe, arrivato nei pressi di Gaeta, vede fuoriuscire un pennacchio di fumo. Sarà l’inizio del suo lavoro di osservazione dell’attività vulcanica del Vesuvio, ma anche il pretesto per riflettere sui contrasti del territorio napoletano. “La terribilità contrapposta al bello, il bello alla terribilità; – dirà Goethe – l’uno e l’altro si annullano a vicenda, e ne risulta un sentimento di indifferenza. I napoletani sarebbero senza dubbio diversi se non si sentissero costretti fra Dio e Satana”.
Ritroviamo il buco in chiave contemporanea al Museo Madre di Napoli in un’opera di Anish Kapoor, Dark Brother del 2005, dove l’artista veicola lo sguardo dello spettatore verso il ventre della madre terra e verso l’infinito, attraverso un incavo sul pavimento. Il buco è qui un luogo fisico connesso alle viscere della terra, ma anche un luogo metafisico, un posto dove si perdono le cose e si perdono le persone.
Quello di Kapoor è il lavoro degli opposti, fatto di positivo e negativo, pieno e vuoto, luce e ombra, ordine e disordine, interno ed esterno, “luoghi” che somigliano al buco e alla montagna. Ma alla “metafisica dei luoghi”, al “sentimento dei luoghi”, è opportuno contrapporre anche la “storicità dei luoghi”, ricostruire in qualche modo una storia fatta di storie, per poi legare le storie l’una all’altra.
Il buco, la periferia, è il posto dal quale vengono fuori queste storie. Dargli voce e corpo è il tentativo di raccontare gli opposti: il margine e il centro, l’astratto e il concreto. In questa dicotomia si muovono le storie degli adolescenti della periferia est di Napoli, dove si deposita tutto ciò che poteva essere e non è stato, dove si sedimentano i sogni e le mille possibilità che potrebbero concretizzarsi o svanire. (caterina guerrieri)
* * *
Gli scritti che seguono, frutto del Laboratorio di scrittura e teatro di Maestri di strada (a cura di Nicola Laieta e Giuseppe Di Somma),sono il tentativo di costruire, in uno spazio sospeso come quello dell’arte, immagini e storie e legarle alla montagna. Sono le storie, tra bello e terribilità, tra sogno e incubo, tra possibile e impossibile, dove le cose a volte svaniscono, passano. Ma in questa metamorfosi di piccole e grandi cose, alcune cose si perdono, altre, invece, restano.
SOGNI
Sogni, troppe volte ho sentito pronunciare questa parola. Ma che significa realmente? O meglio quale significato date a questa parola ogni volta che la pronunciate? Anch’io ho sognato, a volte in grande altre volte in piccolo ma in entrambi i casi non si è mai avverato niente anzi, ogni mio sogno è finito per diventare il mio più grande incubo e da sogno si è trasformato nella più triste e dolorosa realtà, la stessa realtà in cui sono prigioniera da troppo tempo ormai. Cerco di guardarmi dentro, e l’unica cosa che vedo è una corda tesa a un’altezza ogni volta più grande, mi fanno male le braccia, sento tutto il peso del mio corpo che si distribuisce dalle dita delle mani aggrappate alla corda fino all’attaccatura delle braccia, al busto. Le gambe oscillano nel vuoto, la testa è abbandonata, sento il mento che tocca il torace. Dipendo, io dipendo da quella corda, la mia vita, i miei sentimenti, il mio presente, il mio passato, il mio futuro dipendono tutti da quella corda. (chiara stella riccio)
INCUBO
Ho fatto un sogno! Un sogno orribile, orribile.
C’era una mamma, una mamma ‘ncoppe ‘o liett’ che strillava, strillava, strillava! Stava partorendo da sola, le sue urla erano strazianti. A un certo punto, dalla sua pancia vedo uscire un bambino, tutto arrugnato e sturzellato che ha cominciato a urlare insieme a lei, ‘ngueeeee, ngueeeee, ngueeeee! Subito dopo esce un secondo figlio, chiù ‘ngobbuto, ‘ncarugnito e sturzellato d’o primmo, e pure lui, insieme al fratellino e alla mamma, comincia a urlare e piangere, ngueeeee, ngueeeee, ngueeeee!”.
A un certo punto, esce fuori un terzo figlio, mo chist’ tene ‘na faccia bella, rosa rosa, sorridente. Stu bambenielle prima mi fissa, poi gira ‘a capa e guarda il primo fratello che si dispera, e un poco si incomincia a impensierire; poi gira ‘a capa dall’altra parte e guarda il secondo fratello che strilla come a nu pazzo più dell’altro, e il suo sguardo si incomincia a immalinconire; gira ‘a capa verso la mamma che piange come ‘a Maronna ai piedi del calvario, e a questo punto, il suo sguardo si fa scuro, sulla faccia gli nasce un’espressione come se avesse già messo la barba sulle guance. Mi fissa e scapuzzea ‘a capa. E poi se ne torna dentro la pancia della mamma, tra urla, strilli, pianti! Ho cominciato a urlare anch’io e subito dopo mi sono svegliato!”. (domenico ipno)
COME
Come tutti quei ricordi
come quel semaforo all’angolo della strada
come quei sorrisi,
quella risata perduta.
Tra quella lacrima e quella guancia rosacea
tra qualche ricordo e qualche risata
in mezzo a qualche pensiero, o quella nube di fumo.
Come quella cenere che cadeva sbriciolandosi
e noi che ci perdevamo guardandoci.
(denise dentice)
PIOVE
E proprio non capisco
Perché quando piove siamo infelici?
L’universo ci sta nutrendo.
E proprio non capisco
Con miliardi di stelle
Guardiamo in giù
Verso un vuoto che brilla di luce propria.
E proprio non capisco
Perché se siamo umani
Non ci abbracciamo.
Non ci guardiamo.
Non ci sentiamo.
Sentimi! Ti dico.
Non ascoltarmi, solo sentimi.
Sentimi tra le radici, tra i granelli di sabbia, tra gli spiragli di luce e i boccioli di rosa.
Sentimi nella rugiada, nella brina, nella linfa delle piante.
Sentimi guardando il cielo e la luna.
Sentimi nei granelli di zucchero al mattino, nell’odore del caffè, nel rumore del mare e la freschezza dell’acqua.
Sentimi col freddo, col caldo.
Sentimi tra le pesche, tra i ciliegi e gli altri frutti della natura.
Sentimi solo nelle cose belle della vita.
E dammi qualcosa, che non sia rifiuto.
Qualcosa che il mio cuore può stringere e abbracciare la notte, quando si sente solo.
Dammi qualcosa che quando non ci sarai più, guarirà in fretta, e non mi schiaccerà fino a uccidermi.
Dammi qualcosa come un fiore, come un seme o un nocciolo.
Qualcosa che cresca con me.
(arianna dentice)
FISCHIO
Fischio, percussioni, bisbigli, tristezza, umidità.
La tristezza di un circolo vizioso di monotonia
che ti blocca.
La testa con bisbigli e percussioni,
un’aria di lamenti e umidità
che arriva fino alle ossa.
La rabbia che prende il posto della paura.
Il treno che ti passa davanti fischiando, senza fermarsi.
E lì ti rendi conto di aver fatto tardi.
(ivan gallotti)
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