La questione poteva già dirsi chiusa qualche giorno fa con la rubrica del Trinche. Ma il dibattito sull’uso della n-word, stavolta nel mondo dello sport, si è preso la settimana. Sterile e confuso, come sempre, senza che la forma entri mai in relazione col contenuto.
Inter-Napoli, domenica 17 marzo. Le telecamere inquadrano Juan Jesus (Napoli) che protesta con l’arbitro in maniera agitata. «Mi ha detto negro, questo non va bene», riferisce al direttore di gara, indicando Acerbi (Inter). La cosa si ricompone, e a fine partita il brasiliano dichiara ai microfoni di Dazn che il suo avversario ha chiesto scusa e in fondo “quello che succede in campo rimane in campo” (dichiarazione ingenua e pericolosa: rimarrebbe sul campo se un calciatore dicesse a un suo collega ebreo, chiedendo però poi scusa: «Ha fatto bene Hitler a uccidere quella str***a di tua nonna!»?).
Dal dopo partita in poi non si parla d’altro: Acerbi nega l’insulto («Gli ho detto: “Ti faccio nero!”»), Jesus si arrabbia perché Acerbi non dice la verità, Acerbi viene sospeso dalla nazionale italiana e si beccherà tra pochi giorni una lunga squalifica. Ma come relazionarsi con un fatto così idiota e grave allo stesso tempo?
Si tratta di aprire un nuovo luogo di libertà dove tutti gli insulti ricevuti si convertono in parole di cui possiamo riappropriarci e a cui possiamo dare nuovo significato. Chi ti dice puttana, quando demitizzi quella parola e ti rivendichi come puttana, smette di avere un senso paralizzante su di te. (m. galindo, l’insulto è un atto politico, in: pagina siete)
Nel continente nero (terùn – terùn – terùn),
alle falde del Vesuvio (terùn – terùn – terùn),
ci sta un popolo un po’ strano che non parla l’italiano
sembra quasi africano, africano, africano.
Napoletani, napoletani: gente malata;
non lavoriamo, non ci laviamo: città emarginata;
noi che viviamo di truffe e di stenti,
siam parassiti e nullatenenti:
napoletani!
(fedayn napoli, coro curva b)
La parola “negro” ha la stessa etimologia di “nero” (dal latino niger/nigrum, in riferimento al colore) e per secoli ne è stato sinonimo. Dal Medioevo viene utilizzato, nella nostra lingua, per riferirsi a persone con la pelle nera, ma è con l’epoca coloniale che diventa di uso comune in tal senso. È stato via via sostituto da “nero” dalla fine degli anni Sessanta, fino a che anche l’Accademia della Crusca ha stabilito che identificare qualcuno come “negro” è da considerarsi vituperio, perché nella prassi il termine è avvertito dai parlanti italiano come offensivo, indipendentemente dal fatto che il vocabolo sia accompagnato o meno da epiteti come “sporco” o simili. Allo stesso modo l’espressione “di colore” è, a giusta ragione, considerata sconveniente (un cinese non lo definiamo “di colore”, eppure ha un colore della pelle diverso dal nostro), anche se pure Angela Davis usa “women of color” con un’accezione auto-rivendicativa, per non parlare del “nigger” usato tra afroamericani. Ma questa è un’altra storia.
Ma “nigra” e “nigger” sono ingiurie dirette e non possono ingannare, mentre l’altra parola che rappresenta la rispettabilità della stessa condizione (ovvero “Negro”) non è altro che la stessa sostanza posta in un involucro ben lustrato e con la lettera maiuscola. Una raffinatezza che viene usata per consentire l’uso legittimo di una terminologia spregiativa senza imbarazzo. […] Tutti gli afro-americani e gli africani intelligenti e bene informati respingono l’uso di questo termine sia come sostantivo che come aggettivo. (malcom x, programma fondamentale dell’organizzazione per l’unità afro-americana)
Difficile dire qualcos’altro (da bianchi). I neri ci conducono verso riflessioni più approfondite.
Sul termine “Nero” si mettono in campo due logiche irriducibili e irriconciliabili. La prima, legata a tradizioni di pensiero africano-americano, caraibico o africano, fa della differenza nera il luogo di elaborazione di un mondo “che si è sbarazzato del fardello della razza” […]. Il significante “noir” non è più il segno di un recinto razziale, assembla invece le scritture di quelli che riprendono e correggono i linguaggi dell’universale a partire dalla “parte dell’umanità (che è) stata (loro) rubata”.
La seconda logica descrive un rapporto sociale. […] L’invenzione moderna del soggetto “negro” è indissociabile dalla storia del capitalismo che l’ha prodotto. La fabbrica di questo soggetto della razza – massa muscolare da cui i proprietari estraggono forza lavoro a basso costo – costituisce un modello dello sfruttamento capitalista e della sua etnicizzazione e razzializzazione: antagonismo razziale e antagonismo sociale si costruiscono mutuamente, anche se si sviluppano, a volte, in modo autonomo. Nell’epoca moderna, l’alienabilità proprietaria dello schiavo trova la sua giustificazione nel “principio della razza”. […] Le istanze del capitalismo contemporaneo partecipano all’estensione di questo principio: la fabbrica del “negro” oggi non prende i suoi codici sulla biologia; descrive piuttosto una “categoria subalterna dell’umanità” che noi espelliamo e che abita spazi di confinamento in cui “l’auto-reificazione costituisce la migliore occasione di capitalizzazione di sé”. (n. y. kisukidi, the universal in the bush, in: journal esprit)
Questione di pelle è questione di classe: anche su questo è stato detto tutto, ma magari non a tutti. Repetita iuvant.
Oggi la Rivoluzione nera sta avendo luogo in Africa, Asia e America Latina, e quando dico nera intendo “non-bianca”, quindi nera, marrone, rossa o gialla. I nostri fratelli e sorelle in Asia, che sono stati colonizzati dagli europei, i nostri fratelli e sorelle in Africa, che sono stati colonizzati dagli europei, sono coinvolti in una lotta dal 1945 per cacciare via i colonialisti e le potenze coloniali dalle loro terre, dai loro paesi. Questa è una vera rivoluzione. La rivoluzione si è sempre basata sulla terra, e non sul chiedere il permesso di bere una tazza di caffè accanto a un bianco. Le rivoluzioni non si combattono porgendo l’altra guancia. Le rivoluzioni non si basano su “ama il tuo nemico” e “prega per coloro che ti opprimono e perseguitano”. […] L’uomo nero si è trovato in una condizione sociale inferiore perché non ha mai avuto alcun controllo di sorta sulla sua terra. È stato un mendicante nell’economia, nella politica, nel sociale, ed è un mendicante anche quando si tratta di ricevere un’istruzione. (malcom x, discorso a palm gardens, new york, 1964)
La mia decisione di iscrivermi al collettivo nero militante del partito deriva direttamente dalla mia convinzione che la sola via per la liberazione di tutti i neri è quella del rovesciamento completo e totale della classe capitalista e di tutti i suoi mezzi di oppressione. (angela davis, intervista pubblicata dal muhammad speaks, in: nel ventre del mostro)
Sul tema, il riferimento letterario assoluto è Uomo invisibile, di Ralph Waldo Ellison, romanzo premio Pulitzer e National Book Award 1953, eppure non abbastanza pubblicato e conosciuto, soprattutto fuori dagli Stati Uniti. Il protagonista è un Anonimo afroamericano, invisibile alla società e ancor più al mondo della cultura in cui ambisce inserirsi, in costante necessità di riconoscimento prima da parte degli influenti uomini bianchi in cui si imbatte, poi dei gruppi di neri che cercano di organizzarsi politicamente e che frequenta ad Harlem, fino a raggiungere la consapevolezza di essere invisibile per tutti loro, a meno di non plasmarsi sull’identità che questi immaginano di costruirgli addosso. Lettura imprescindibile.
Nun saje niente ‘e chesta vita mia
parle sempe ‘e me, comme se fa?
Tu nun saje nemmeno tu chi sì
pare strano ca me può capi’.
Capisce tu chi sì, e po’ parlammo ‘e me!
(james senese, che jurnata)
(a cura di riccardo rosa)
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