“Se ci chiedete come state, pronti al peggio non c’è male”. Il ritornello di Pronti al Peggio dei Casino Royale mi rimbomba nella testa. Vivere alla giornata, non potersi permettere il lusso della programmazione se non sulla breve distanza, organizzare il proprio tempo nell’ordine delle due ore, al massimo tre. Ora so che devo andare fuori a quei maledetti cancelli, arrivare a una conclusione e accettarla, qualunque essa sia. Far parte di quella categoria di persone che la verità non gli basta averla sotto i propri occhi, sente il bisogno di farsela sbattere in faccia.
Apro gli occhi a pezzi. Ho bisogno di farmi due liniette. La roba scende bene, serena e fluida e così scendo anche io, ma appena fuori dal palazzo lancio la prima bestemmia della giornata: il Free non parte, la candela avrà preso acqua, mando a cacare il mezzo e sbuffando mi incammino a piedi. Passo davanti alla macelleria dove i randagi sono in attesa che don Peppe gli lanci le ossa quotidiane. Alla solita mezza dozzina, di recente se n’è aggiunto uno nuovo, che ho chiamato tra me e me Cocacola, tozzo e nero e col tartufo rosso, è uguale alla bibita a stelle e strisce.
Caffè al Bar Gaetano, la caffetteria peggio gestita di San Giovanni. Manca tutto, nella vetrinetta non c’è un cazzo, i cornetti fanno schifo e le pizzette pure, se vuoi un bicchiere d’acqua vicino al caffè lo devi chiedere. Il proprietario non sa farlo questo mestiere, si è improvvisato al bar dopo che ha perso il posto nell’ingrosso di carni dove lavorava, e con la liquidazione e altri soldi racimolati dai parenti ha rilevato questo posto che un tempo fu glorioso. Ma non è arte sua, ho una certa confidenza con Gaetano, il che mi permette di redarguirlo sugli atteggiamenti sbagliati con i clienti. Gli faccio notare che con alcuni di loro non deve cercare un dialogo, inutile fare il brillante e provare a tutti i costi a imbastire un discorso, tipo con Luciano, un alcolizzato che da tempo non ha più voglia più di andare avanti, figuriamoci di parlare. Luciano si è lasciato sopraffare dagli eventi, chi ha un problema con l’alcool ha come ultimo pensiero quello di parlare con qualcuno, l’unica cosa che vuole è mandare in letargo l’anima. Ti posano sul bancone la mille lire e tu devi riempirgli il bicchiere, punto.
Per arrivare alla Snia Viscosa devo per forza percorrere il corso. Arrivato al largo Tartarone attraverso per portarmi sul viale che mi condurrà alla Vesuviana, dove salgo sul cavalcavia che mi farà evitare di passare davanti al Rione dei Profughi. Lì, nel dopoguerra, c’erano i rifugiati greci e ancora oggi si sente qualche cognome ellenico. Scendo gli ultimi gradini e faccio una sosta da Vecienz’ ‘ncopp ‘a via Nova, il regno degli amanti della musica a basso costo, dove puoi trovare amplificatori, subwoofer, autoradio e musicassette Mixed by Erry, le hit del momento e le compilation di musica da discoteca più ricercata, quelle targate Picchio Rosso, arrivate al Volume 27.
Da tempo manco dalla zona, anche se in linea d’aria la fabbrica è distante solo pochi chilometri da casa, ma non è un posto in cui di norma ci si va per passeggiare. Vedo un gabbiotto prefabbricato presidiato da due guardie giurate che non ricordavo, e un grosso cancello automatico blu giusto al centro di un muro di tufo rimesso in sesto da poco. Chiedo alle due guardie se quello è l’ingresso della Snia Viscosa, ma i due mentre accennano un sorriso che non riesco a interpretare mi correggono, come se avessi detto qualcosa di ridicolo. Ex Snia Viscosa, dicono mettendo l’accendo su quell’“ex”, considerando, mi spiegano, che la fabbrica ha chiuso quindici anni fa. La vista mi si annebbia e non riesco ad ascoltare le loro smozzicate parole che mi raccontano di progetti di riconversione, nuova mission produttiva e altre menate di questo genere. Non riesco a essere lucido, per scrupolo gli chiedo se per caso i nuovi padroni abbiano lasciato qualche attività della vecchia fabbrica ancora in piedi in zona, ma la loro risposta è netta, non c’è un cazzo, almeno non più a sud di Reggio Emilia. Mi allontano, accendo una sigaretta e mi siedo su un muretto mezzo sfasciato lontano un paio di centinaia di metri dal cantiere. Mi chiedo come cazzo abbia fatto Sarnataro per anni a tenerci nascosta una cosa del genere, a mettere il suo completo grigio di merda tutte le mattine, per andare dove, poi?
Per un attimo mi estraneo. Avrei bisogno di farmi, ma non ho niente con me. Mi sento un po’ come Lina Sastri quando in quel vecchio film scopre che no, suo marito non faceva mica l’operaio all’Italsider. Chi mi ha cresciuto è un bugiardo, ok, ma ormai me ne passa per il cazzo. Il vero problema piuttosto è che la mia ricerca della verità sembra arrivata a un punto morto.
Prendo la via di casa pensando a cosa posso fare. Faccio il percorso a ritroso e all’altezza del Tartarone sento alle mie spalle un Transalp. Mi giro e vedo i due soliti enormi sopra. Ricomincio a camminare, il rombo della moto si fa sempre più forte, salgo sul marciapiede ma sembra che i due bestioni vogliano venirmi addosso. Accelerano, sono a pochi centimetri da me quando faccio appena in tempo ad accostarmi al muro e vedere la moto che mi passa accanto velocissima. Il cuore mi sale in gola, bestemmio, prendo una pietra da terra e gliela tiro contro, ma i due sono già lontani. Mi chiedo cosa cazzo volessero, ma torno abbastanza in fretta ai miei pensieri. Forse uno scippo, anche se uno scippo non si fa in Transalp, e soprattutto non si fa a uno come me. In ogni caso continuo a camminare, e la mia testa è solo in quella dannata Snia. Anzi Ex Snia.
La giornata non finisce qui, però. Devo incontrare Gianni ‘o Gnu. Gli ho chiesto di vederlo da solo per togliermi il peso da dosso, e per non metterlo in difficoltà con i ragazzi per le parole che gli dirò. Voglio uscire dal gruppo. Dopo sei anni in giro per gli stadi ho voglia di cambiare aria. Il Napoli è una malattia ma l’ambiente comincia a non piacermi più, come l’ego di qualcuno che in curva ha raggiunto vette altissime, prime donne che sembrano aver ricevuto in delega dalle guardie la gestione dell’ordine pubblico nelle curve, in cambio di non si capisce cosa.
Lo vedo alle dieci, davanti al murales a Ponticelli. Gli spiego le mie intenzioni, parto da lontano ma lui capisce in fretta dove voglio andare a parare. Pure lui lo sa che il vento in curva sta cambiando, che sui gradoni si vedono nuove dinamiche a cui anche lui non riesce più a star dietro. Mi propone di “dargli una mano”, di “prendermi qualche responsabilità in più”, il che significa scalare gerarchie nel gruppo, sembra che per non perdermi sia disposto a tutto, ma io declino e lui comprende. Sappiamo che non ci rivedremo spesso, ma prima di salutarci gli dico che difenderò ovunque i nostri colori e che la nostra amicizia resta ovviamente immutata. Ci abbracciamo, ci diamo una pacca sulla spalla e chiudiamo insieme il libro.
“Senza servi né padroni”, recita quella scritta che ho visto qualche tempo fa a Officina99. Più che sulla pelle quella frase mi si è tatuata nella mente e con la mia uscita dal gruppo sono convinto di aver fatto fede a questo motto. In ogni caso non ho tempo per farmi domande vere, e quindi faccio finta vada bene così. Ah, rientro a casa che ne ho anche un’altra di convinzione, stasera. Che in questa dura giornata altre due liniette me le sia meritate tutte. (gerardo picarelli)
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ZONA EST NOVANTA
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