Sono mesi che non vado al campo. Non ho la testa giusta, sarei un pericolo per me e per gli altri, ma domenica ci voglio essere. Domenica si saluta la Serie A, game over, manca la certezza matematica ma già da settimane i ragazzi hanno mollato. Come me d’altronde.
Le due liniette non bastano più, l’animo è tormentato, la mancanza di sviluppi nella ricerca della verità su Sarnataro è solo una scusa, il galleggiante a cui mi aggrappo nel mare in tempesta, l’alibi per gli amici che mi vedono giù, sempre scuro in volto, dimagrito, inappetente alla vita che fino a qualche mese fa prendevo a morsi. Pochi giorni fa ne ho fatti ventitré, ma me ne sento ottanta. Non sono scoppiato quando mamma ci ha lasciati, quando le maestre mi mettevano a disegnare se c’era il tema sulla mamma, non sono schizzato quando non ero sicuro di poter mettere insieme il pranzo e la cena, e per cosa vado fuori di testa, ora? Per una femmina. Dio Santo. «Gegè tu tieni i problemi?», mi diceva Pina mentre con una grassa risata faceva l’elenco dei suoi, illudendosi di darmi forza in quel modo. Suo padre e i suoi fratelli erano dentro, mentre lei era rimasta a fare da madre ai due ragazzi della sorella, ospite al femminile di Pozzuoli. Se fossimo stati iscritti al campionato del disagio, lei era una da Coppa Campioni, io al massimo avrei potuto lottare per un piazzamento Uefa.
Avevo lasciato Pina da qualche mese, ma già dopo un attimo me ne ero pentito. Non ero capace di mantenere relazioni, di amicizia o di coppia: lo avevo fatto con il gruppo, l’ho fatto pure con Pina. Sono così, mi brucio tutto subito, dopo poco l’amore diventa odio e i fallimenti sempre colpa di qualcun altro. La curva andava in pezzi? La colpa era dei ragazzi. Pina si era cacata il cazzo dei miei sbalzi d’umore? La colpa era sua che non sapeva prendermi. Credevo di essere uno a posto, ma mi comportavo da fogna: manipolatore e narcisista, però non disdegnavo di piangermi addosso. Riuscivo a essere contemporaneamente tutto quello che odiavo, prendevo in giro Monica e le sue pillole, ma io ero messo molto peggio. Quello che mi aspettava era un lungo percorso per cercare di uscire dal pantano. La brigata Zarelis aveva un membro in più.
Quella partita e quella retrocessione avevano un significato simbolico. Come la squadra anche io avevo toccato il fondo, ora bisognava risalire la china. Nella mia testa la Serie B era propedeutica per la crescita dei cotonas, così chiamavamo i giovanissimi che ci seguivano. Stare lontano dalle grandi città, dal San Siro o dal Delle Alpi non poteva che fargli bene, sarebbero venuti su con la giusta rabbia, ogni domenica ci sarebbe stata una battaglia con le altre tifoserie che sicuramente non avrebbero voluto sfigurare contro di noi. Stravedevo per i cotonas. Erano diamanti grezzi, hooliganismo puro, cercavano solo lo scontro, stile zero, alcuni indossavano la tuta del Barcellona e il cappellino del Psg, non erano i tipi che cercavano di apparire, e difficilmente li avresti visti sulle pagine di Supertifo. Ora toccava a loro, a ventitré anni io sentivo di aver già dato il meglio di me.
Al Tardini perdiamo. Lacrime di Taglialatela, retrocessione matematica, noi ci facciamo sentire, si slacciano le cinghie, qualche seggiolino viene dato alle fiamme, altri vengono scagliati in campo. La celere di Padova inizia a caricarci, tra i lacrimogeni riesco a guadagnare l’uscita, sono da solo in territorio nemico, cerco con lo sguardo qualche viso noto ma niente. Il suono delle sirene fa da colonna sonora. Mentre decido cosa fare parte una nuova carica di alleggerimento, provano a disperdere i presenti, io mi ritrovo in mezzo ai tifosi normali e ci becchiamo manganellate senza motivo, finché riesco a divincolarmi e a scappare. Finalmente vedo i nostri in lontananza. Mi aggrego, in mezzo a loro mi sento più forte, riesco a far perdere l’equilibrio a un celerino che non ha nemmeno il tempo di cadere culo a terra e si trova in una festa di calci. Alzo la testa, le guardie stanno correndo verso di noi, mi giro dandogli le spalle ma subito sento un abbraccio stringermi da dietro. Mi hanno bevuto, i celerini mi alzano di peso e mentre scalcio vedo aprirsi le porte del blindato.
Sono al commissariato da qualche ora. Non ho l’orologio, ma saranno passate le otto da un po’. Sono insieme a dei negri presi per spaccio. È la prima volta in una cella, ma non ho ansia o tensione, i reati da stadio sono poca cosa, i calci di rigore a porta vuota per gli avvocati difensori. Domani o al massimo dopodomani ci sarà il processo per direttissima e poi tutti a casa. Sento un accento delle nostre parti interrompere il silenzio. Entra e si presenta un poliziotto in borghese, ispettore Capasso. Mi guarda, con tono deciso mi dice di alzarmi, poi più tranquillamente che sono libero. Non capisco che cazzo succede. Mi beccano mentre tiro calci in bocca a un carabiniere e loro quasi si scusano per l’accaduto?
Dei ragazzi partiti con me non ho notizie. La batteria del Nokia è fuori uso, ma poco male, l’unica cosa che mi interessa ora è spararmi qualcosa in vena. L’obiettivo è raggiungere Bologna, se mi sforzo posso farcela a ricordarmi dov’è che abita la sorella di Brunella con suo marito. Mi vogliono bene, anche se con Bru mi sono lasciato male, e un letto per me lo avranno sempre. Prendo l’ultimo treno senza pagare il biglietto e una volta a Bologna chiamo Bianca da una cabina. Dormiva, cazzo. Le racconto cosa è successo e lei mi dice che manderà Carlo a recuperarmi alla stazione. Venti minuti. Giusto il tempo di passare per il Link, prendere il prodotto da un peruviano con capello rasato nei lati e coda di cavallo e farmelo nel cesso del locale.
Mezz’ora dopo Bianca mi apre la porta e mi abbraccia forte. Le liniette mi fanno rilassare, ma è quell’abbraccio che mi fa stare bene. Mi addormento sul divano pensando a questo. (gerardo picarelli)
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ZONA EST NOVANTA
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